1) Nitam e la delfina Riscia.
2) Il riccio Adalgiso.
3) Aurilobolia domestica.
4) Sognatrici della Luna.
Quarta storia Zen di Nitam e della delfina Riscia.
Nitam era un giovane pescatore dell’isola del Tino. La sua bellezza era rinomata in tutte le baie e tutte le ragazze dell’isola lo amavano follemente, invano, perché lui aveva dato tutto il suo cuore a Stellina.
Nitam ritornava dalla pesca sempre in tempo per godersi il tramonto insieme a Stellina. Il tramonto della spiaggia di ponente era magico, mentre il sole calava, la superficie del mare trasmutava in magici colori: dal rosso fuoco al violaceo, dal blu cobalto al grigio, per poi alternarsi in sfumature dal verde acqua al blu fino a confondersi con la luce crepuscolare. Nitam e Stellina stavano seduti in silenzio sulla battigia, mano nella mano, a godersi quella meraviglia. L’energia del loro amore fluiva in infiniti attimi di tantrico silenzio.
Nitam andava a pescare tutti i giorni anche con il mare grosso per poter mantenere i suoi genitori. Quella mattina il mare era un po’ mosso, ma Nitam puntò il gozzo lo stesso verso il largo. Aveva già calato le reti, quando vide da est, una tempestosa nube nera avanzare verso di lui. Mise subito la prua verso terra, ma presto le onde furiose dell’uragano travolsero il gozzo e scaraventarono Nitam a mare. Lottò contro la furia delle onde con tutte le sue forze, ma infine, stremato, svenne dalla fatica e cominciò a colare sott’acqua.
Stellina piangente scrutava l’orizzonte da terra presagendo la disgrazia. Le onde avevano già portato sulla spiaggia alcune parti del gozzo, e tra queste la fiancata con scritto Stellina. La poveretta ormai si aspettava rassegnata che prima o poi quelle onde avrebbero portato il corpo esamine di Nitam.
Per fortuna non andò così: la delfina Riscia raccolse in tempo Nitam sott’acqua e lo tenne in superficie fino a quando non fu passata la bufera. Riscia fece rinvenire Nitam con la respirazione bocca a bocca e nel mentre Nitam sognava di baciare Stellina. Svegliandosi si accorse che quella era la bocca della delfina Riscia. Per nulla spiaciuto, continuò con un caloroso bacio di ringraziamento alla sua salvatrice ed urlò: “Sono salvo!” Tra se e se pensò: “Questi baci, mi confondono e mi piacciono un po’ troppo!” Ridendo continuò: “Va a finire che mi innamoro di una delfina!”. Nitam salì in groppa a Riscia che lo portò velocemente a terra.
Stellina al vederlo sano e salvo impazzì dalla gioia, abbracciò Nitam e ringraziò di cuore la delfina.
Nitam salutò Riscia con un grosso bacio: ad entrambi caddero grossi lacrimoni.
La sera Nitam e Stellina si incontrarono per il rituale appuntamento del tramonto, appena sotto il filo dell’orizzonte si intravedeva la sagoma di Riscia, ma Nitam quella sera era diverso, l’energia del loro amore, non fluiva più come prima. Nitam non parlava più, guardava solo l’orizzonte e la delfina che lo aveva salvato.
Quella notte Nitam sognò Riscia che lo baciava con dolcezza: si svegliò turbato da una piacevole sensazione, dispiaciuto che si stesse esaurendo. Mise insieme i suoi risparmi si comprò una nuova barca e la chiamò Riscia in omaggio alla delfina che lo aveva salvato.
Stellina non gradì tanto la cosa e cominciò a diventare gelosa della delfina. Nitam varò la nuova barca e si buttò verso il largo, era una stupenda giornata e il mare era piatto come l’olio, calò le reti e si sdraiò al sole, sulla prua, speranzoso dell’incontro con Riscia.
Appisolatosi, un dolce fischio lo svegliò, era la sua cara Riscia. Subito Nitam si tuffò nell’acqua a giocare con lei, le ore passarono veloci e presto diventò sera. Erano così felici insieme! “E’ l’ora del tramonto” pensò Nitam – ” Devo correre subito a terra da stellina”. Salpò velocemente le reti, ma quando arrivò a riva il tramonto era già passato da un pezzo, anzi si vedevano già le stelle. Stellina gli fece una scenata incredibile, era la prima volta che Nitam mancava l’appuntamento del tramonto.
Il giorno seguente, Nitam e Riscia s’incontrarono di nuovo al largo, e così i giorni seguenti… Riscia, arrivava puntuale annunciandosi con il suo dolce fischio: “Fiuii… Fiuii… Fiuii… Fiuii…”, e invitava Nitam a tuffarsi con lei.
Lei si muoveva nell’acqua con eleganza, nei suoi occhioni neri traspariva purezza e innocenza, le sue labbra erano morbide e profumate di mare. Si baciarono danzando nell’acqua.
Le delfine in amore sono danzatrici incredibili, cosicché Nitam cadde nel vortice della danza e dell’amore insieme. La sua mente era affollata di pensieri: “Mi sa che mi sono innamorato di Riscia. E’ assurdo! Non ho mai sentito dire di un uomo che si innamora di una delfina. Ma io sto bene solo con lei! Quando mi bacia il piacere mi inebria e mi riempie fino alle unghie dei piedi”. “Sento le vibrazioni della sua testa in sintonia con la mia, e stasera voglio vedere il tramonto con Riscia”.
Così fece: non tornò a terra e si gustò il tramonto al largo con Riscia. Furono momenti meravigliosi e così intensi che Nitam volle trascorrere anche la notte di luna piena con Riscia. Ritornò il mattino seguente.
Stellina era ad aspettarlo sulla battiglia: scoppiò una lite infernale, parlava sempre lei. Nitam si limitò a riferire una scusa pietosa: “Mi si è incagliata la rete, ho perso la notte per cercare di salvarla”. Ma a Stellina non piacque quella scusa.
Il giorno seguente, con un paio di binocoli potenti spiò Nitam al largo e scoprì l’idillio acquatico. Andò su tutte le furie e cominciò a premeditare una vendetta. Crudelmente pensò: “Con il filetto di delfino si fa il “mosciamme”, un prosciutto molto apprezzato dai turisti dell’isola, così quella stupida delfina la smetterà per sempre di civettare con il mio fidanzato”.
I pescatori dell’isola del Tino non pescano il delfino perché è un pesce sacro e rispettato, solo alcuni cattivi lo fanno per denaro.
Argan era un pescatore senza scrupoli, accettò volentieri l’incarico di uccidere la delfina in cambio di una notte d’amore con Stellina. Essa così si sarebbe vendicata due volte.
Argan partì subito col suo peschereccio, in direzione sud-ovest seguendo le indicazioni di Stellina. Infatti dopo poche miglia trovò Riscia, che ignara andò incontro al peschereccio in segno di amicizia. A Riscia piaceva gareggiare con le barche: cominciò a nuotare saltando davanti alla prua del peschereccio. Argan, infido invece, teneva il suo arpione dietro la schiena, per colpirla appena fosse venuta a tiro. Riscia si avvicinò ad Argan, per salutarlo, ma lui la colpì a tradimento trafiggendole il dorso con l’arpione.
Riscia cominciò a piangere e i suoi lamenti echeggiavano per miglia e miglia. Cercò di strappare la corda, ma la fatica era inutile e la lotta impari; trainò la barca per diverse ore cercando di disarcionarsi, ma alla fine si abbatté sfinita. Argan la tirò su col paranco di prua e la legò per la coda con la testa in giù all’albero maestro.
Dovete sapere che i delfini vengono filettati vivi, e a testa in giù, perché così si dissanguano meglio, ed il “mosciamme” diventa più buono. I vecchi pescatori dicono che una terribile maledizione si abbatte su chi uccide i delfini, ma Argan si vantava di non essere superstizioso. I lamenti di Riscia avrebbero commosso chiunque avesse avuto un cuore, ma Argan non l’aveva.
Nitam aveva sentito i lamenti di Riscia da lontano e stava arrivando col motore a tutta forza per salvarla, nel mentre Argan affilava i coltelli, pregustandosi la doppia ricompensa per l’uccisione di Riscia, canticchiava una vecchia canzone saracena: “Quant’è buono il mosciamme di delfino servito con un buon bicchiere di vino, se infine aggiungi pomodoro e cipolla, ti dà la forza di un leone e ti satolla”.
Nitam appena avvistata la barca di Argan scorse Riscia sfinita, ma per fortuna ancora viva, appesa all’albero maestro. Infuriato puntò la prua del suo gozzo contro la fiancata del peschereccio aprendogli una grossa falla. Argan si precipitò sotto coperta per tamponarla pensando: “Quei due lì, dopo li sistemo per le feste!”.
Nitam tagliò il cappio a Riscia ed insieme si gettarono a mare. La povera delfina si riprese un po’ nell’acqua, e nonostante la ferita prese in groppa Nitam, ed insieme si diressero verso lo scoglio piatto.
Dopo un miglio si girarono e contenti videro la barca di Argan affondare lentamente insieme a lui. La maledizione si era avverata!
Arrivarono allo scoglio piatto, Riscia esausta si fermò e guardandolo seria negli occhi disse a Nitam: “Mi vuoi bene?” Nitam annuì. Riscia ribadì: “Se mi vuoi bene, per sempre e ne sei sicuro, trattieni il respiro e non pensare a nulla”. Nitam chiuse gli occhi e si inabissò con lei, si inoltrarono insieme nella caverna sottomarina sotto lo scoglio piatto.
Riemersero in un nuovo mondo, magico e pieno di luce, lì abitavano altri delfini, foche, lontre e tartarughe di mare, fuggiti dal mondo malvagio degli uomini predatori, convivevano felici con altri esseri umani, buoni di cuore e d’animo come Nitam.
Nitam e Riscia non ritornarono mai più nel mondo da dove erano venuti.
Le storie Zen nutrono lo spirito e migliorano la nostra consapevolezza. Tieni questa fiaba e leggila a chi ti è caro, viene da un cuore grande così.
Il riccio Adalgiso.
Così non si poteva andare avanti.
Da quando l’opulenza e la tecnologia terragne avevano celebrato i propri fasti, sotto il pelo dell’acqua letteralmente non si poteva più vivere.
Non è che i ricci fossero per principio contro il progresso; anzi, avrebbero tanto desiderato che il depuratore di cui da decenni si favoleggiava entrasse davvero in funzione; ma le generazioni dei ricci passavano, e del depuratore miracoloso si udiva sempre soltanto parlare e oramai nessuno ci credeva più. Sicché i ricci, cui comprensibilmente non garbava l’idea della propria estinzione, si diedero da fare per sostituirlo con i propri mezzi.
I ricci, in sé, sono già piccoli depuratori: incamerano l’acqua del mare, la filtrano e la risputano fuori pulita; questo hanno sempre fatto sin dall’origine del tempo; e quindi per un po’ poterono illudersi che sarebbe bastato lavorare più intensamente e organizzandosi meglio.
Quasi tutti ostentavano un ottimismo un poco isterico: “Forza ragazzi che ce la facciamo”. Ma Adalgiso, un giovane riccio dagli aculei color glicine, non aveva nessuna intenzione di cedere alla viltà delle illusioni e ridestò la coscienza di tutti dando voce al sentimento che tutti cercavano di dissimulare: “Gente, lo vedete anche voi: se continua così potremo scegliere se crepare avvelenati o morire di fatica”.
Ora, bisogna sapere che i capi colonia avevano deciso che solo una rigida ed efficiente organizzazione del lavoro avrebbe salvato il mondo; e avevano assegnato a ogni individuo un lotto della baia con l’obbligo di depurarlo perfettamente: pena la morte; e non c’era più modo di fare altro, neanche l’amore, perché nessuno poteva abbandonare il proprio posto di lavoro: pena la morte. Sicché Adalgiso pronunciò le sue poche parole parlando a scatti e sbuffando, perché intanto trangugiava e pompava.
I ricci improvvisamente si resero conto dell’assurdità della loro situazione, si ribellarono ai capi ed elessero presidente della colonia Adalgiso; il quale, trascorsa l’ebbrezza dell’emozione e dopo avere approfittato della confusione per scambiare, finalmente, qualche bacetto con Lucilla, una ricetta color rosso amaranto che sorbiva e soffiava accanto a lui e della quale da tempo era innamorato, tremò in ogni spina sentendo il peso tremendo della responsabilità che s’era assunto.
Lucilla era bellissima, nessuna come lei conosceva l’arte di coprirsi con le conchiglie vuote: forse per mimetizzarsi e sfuggire alle aragoste, notoriamente golose di ricci, o forse per puro senso della bellezza.
Adalgiso fu tentato di proporle una fuga romantica e solitaria ai Caraibi, lontano da queste acque puzzolenti; ma ebbe vergogna: egli amava questi fondali e sentì che aveva il dovere di tramandarli ai propri figli, puliti come erano stati una volta, odorosi d’arziglio e non di fogna e pollegrina. Purtroppo si può avere un desiderio e non sapere come appagarlo. L’amore!
Adalgiso, come aveva trovato nell’amore l’energia e le motivazioni per ribellarsi, vi trovò anche la soluzione al problema che angustiava la colonia dei ricci e a dire il vero anche la comunità degli uomini.
Si ricordò del polpo Temistocle, che da molto tempo intratteneva una appassionata relazione con una giovane ma già celebre giornalista. Gli uomini – belle giornaliste comprese – sono quelli che sono: le cose le vedono solo quando non possono farne a meno; la giornalista, benché abitasse una casa affacciata proprio sulla baia, non si era mai resa conto del disastro che aveva sotto gli occhi, e sotto il naso; ma a renderle giustizia occorre dire che da quando prese coscienza, esercitò tutti i propri talenti per trovare una soluzione.
Subito dopo l’amore, la parola governa il cuore degli uomini; si può immaginare la potenza che poté sprigionare la parola di una donna innamorata.
I suoi articoli misero in moto sentimenti sopiti, restituirono capacità d’indignazione dimenticate, dignità avvilite; a furore di popolo il Sindaco fu costretto a costruire un vero ed efficiente depuratore, quindi cacciato.
A gran voce la popolazione chiedeva che al suo posto venisse chiamato il riccio Adalgiso, che però non volle lasciarsi convincere: “ Per un lavoro così – argomentava – ci vuole uno meno spinoso di me”; e suggerì il polpo Temistocle, che, infatti, fu subito eletto sindaco, nonostante qualcuno temesse che, con tutti quei tentacoli non si sarebbe più riusciti a staccarlo da quella poltrona.
Ma in questa favola tutto andrà bene e tutti vivranno felici e contenti: Adalgiso e Lucilla, sposi beati e fedeli, avranno un cesto di vispi riccetti ogni anno; la bella giornalista sarà assunta in Comune come Capo Ufficio Stampa e potrà stare accanto al suo Temistocle tutto il tempo che vorrà; Temistocle, benché in effetti un po’ troppo attaccato alla poltrona, sarà un ottimo Sindaco; il mare tornerà pulitissimo; e se qualcuno dovesse pungersi con un riccio, invece di lamentarsi e imprecare, ricorderà che proprio ad essi si deve se il mare e il paese intero hanno potuto sottrarsi alla rovina.
Rudy Ciuffardi
Aurilobolia domestica.
Il nome del borgo di cui narriamo è (stranamente e senza alcuna giustificazione logica) lo stesso della cittadina che oggi abitiamo o calpestiamo: Sestri Levante; altra e diversa la gente; altra forma della vita; altro il tempo.
Una grande spiaggia e una spiaggia piccina, legavano alla terraferma l’Isola svogliata con curve di gomena lenta. Sulla spiaggia piccina ammiccavano gozzi da cinque palmi, e sembrano chierichetti parati alla messa solenne. Sulla grande si inarcavano i fianchi opimi dei leudi vinaccieri, maestosi come altari.
Molte religioni hanno imposto ai propri sacerdoti il rischio della vita; ma l’ailurobolia è stata (con la tauromachia che stranamente le si apparenta e non a caso è scaturita dallo stesso fulgore mediterraneo) probabilmente l’unico rito di cui non si potesse dire in anticipo se gli officianti sarebbero stati sacerdoti o vittime.
Attraverso questa semplice incertezza, la religione diventava avventura, spettacolo, arte, favola, agone; così si originavano nel culto, com’è profondamente necessario, tutte le più elevate attività dell’uomo, e vi risplendevano smaglianti le sue migliori qualità.
Vi sono riti e culti che, come i nostri moderni, si aprono generosamente alle masse offrendosi con indifferenziata generosità alla pratica di chiunque; ma quello solo a un’indomita aristocrazia era riservato: perché solo gente coi nervi saldi, l’occhio vigile e il cuore indomito poteva accedervi.
Berretta ne fu il sacerdote supremo e l’indimenticato eroe: non solo e non tanto perché possedette in sommo grado tutte codeste sontuose qualità, ma perché in ogni suo gesto riposava tra squillo e sublime, il mistero che in ogni campo dell’umane attività inconfondibilmente distingue il genio dal semplice talento e induce non di rado alla leggenda.
Lui, parlandone da vivo, aveva un tocco speciale, magico si vorrebbe dire stregante.
Quando ormai ogni felino aveva imparato a dissolversi alla vista dell’uomo, Berretta flautava il suo mellifluo, insidiosissimo Miciomicio: e subito, inspiegabilmente e come evocati, tre o quattro gatti stralunati emergevano da chissà quale patetico nascondiglio e mollemente l’avvicinavano.
Incantati, instupiditi si avvicinavano. Sembravano perfettamente consapevoli di quello che sarebbe loro accaduto ne sono sicuro: lo sapevano. Eppure venivano lo stesso: odiandosi, odiandolo, tremanti, ma venivano. Il suo richiamo era più forte della loro paura, della loro coscienza; l’attrazione più grande della ripulsa.
Lui li accarezzava con quelle mani enormi, nelle quali essi quasi scomparivano; loro issavano la coda, mestamente sventolandola, pareva più un gesto di resa o di rassegnazione che di beatitudine; e dopo un istante drappeggiavano alti nel cielo: neri, urlanti, con tutte le zampe aperte, mille unghie sguainate e il pelo ritto di terrore e di rabbia.
Svettavano sulla cima dell’albero, oltrepassavano la punta del bompresso, e quasi non avevano ancora toccato terra che già scappavano verso l’orizzonte con uno scoppio e un sibilo d’orrore.
Ma se superare con un gatto tutto un leudo in altezza e lunghezza già gli era valso, e giustamente, un tributo unanime d’ammirazione e di gloria, ciò che fece di Berretta una leggenda, fu il modo in cui, in un giorno di primavera, affrontò e domò, addirittura umiliandola la famigerata Giovanna, la gatta del Titin, buonanima: una veterana che non aveva paura di niente, selvatica e feroce tanto da incutere lei, piuttosto, col semplice sguardo inquietudine e sgomento.
Era il ventotto di maggio, lasciamo imprecisato l’anno, quelli che furono giovani in quel tempo se ne ricordano nitidamente: l’incerto cane di Berretta, Fantasia, se ne andava per i fatti suoi fiutando placido i profumi dell’estate imminente, inseguendo una sua pista privata che sapeva d’arziglio d’acciughe e di fegato di manzo.
La Giovanna sonnecchiava sopra un tavolino del bar Titin. Fantasia non le badò, probabilmente non l’aveva neanche vista. Forse fu questa tranquilla noncuranza che offese la suscettibilità della gatta e stuzzicò la sua ferocia; ma forse fu solo schietta malvagità o una forma di noia stizzosa ad ispirarla. Fece uno scoppio come un petardo e gli si piantò nella nuca con tutte le zampe e coi denti.
Fantasia, che forse non seppe mai che cosa esattamente gli si fosse infilzato sugli occhi, da dove piovuto e come, corse e uggiolò e gridò sgomento, disperato avvolgendosi come una biscia ferita, finché non capì che l’unica speranza di liberarsi dell’unghiuto malanno che l’uccideva stava nel vasto mare salato che, per fortuna di tutti a Sestri, era a quel tempo a due passi da ovunque e con l’ultimo fiato, a rotta di collo, vi si diresse e a capofitto si tuffò: invano.
Andò al largo, al largo, al largo; nuotò s’affannò, si scosse: invano, invano; la gatta maledetta stava sempre più saldamente infissa nel suo cervello finché stremato il povero cane calò a cercare sollievo nella morte sul fondo della baia e la gatta se ne tornò a riva tronfia, con la faccia grassa e soddisfatta. A terra, ad aspettarle, c’era Berretta.
E attorno a lui, più o meno dissimulata, tutta una folla di gente attenta e curiosa.
Quando questa Giovanna approdò, Berretta tranquillo, dolce, fra lo stupore e la perplessità di tutti quelli che sapevano il suo amore per Fantasia e lo immaginavano inferocito e implacabile, la chiamò affettuosamente. Lo sguardo arrogante che la gatta gli gettò non c’è modo di immaginarlo né di descriverlo, bisogna averlo visto; così come bisogna aver visto con quale atteggiamento di sfida, a rinforzo dell’inequivocabile strafottenza dello sguardo, gli si fosse avvicinata: tesa come una vela al vento, le fauci aperte e le zanne e tutte le unghie in minacciosa evidenza.
Berretta mostrò di non avvedersene e l’accarezzò sulla testa. La gatta voltò lo sguardo in su, stupefatta, rabbiosa. Lui l’accarezzò sotto il mento, poi sulla schiena e sotto la pancia.
La gatta, stizzita, s’inarcò contro le sue caviglie; orgogliosamente provò a sottrarsi, si scrollò con vigore, ma come lui continuava ad accarezzarla con parolette dolci e mano ipnotica, infine si distese e alzò la coda in pigre, dolenti volute lussuriose. Allora Berretta fulmineo l’afferrò e dopo averla fatta vorticare tre volte a braccio teso la lanciò in mezzo alla baia. Il pubblico esplose in un’ovazione incontenibile. Vi furono grida, commenti di incredulo stupore, mormorii d’ammirazione, risate; vi fu persino un accenno di battimani.
Ma quando videro il muso della gatta che tornava a terra fendendo l’acqua coi baffi ritti come un incrociatore, ognuno sentì in se una profonda inquietudine, un amaro disagio, il mesto desiderio di essere altrove. Qualche finestra si chiuse, un gorgo di vuoto e di silenzio si scavò attorno a Berretta, il quale fermo, immobile stava elevando, senza sospettarlo, il proprio monumento.
La gatta aveva appena toccato terra che già dopo una sgroppata sommaria e poco più che formale, s’avventava: soffiando irta di rabbia fremente. E forse perché l’evento fu istantaneo o forse perché tutti gli occhi istintivamente si chiusero, nessuno vide in che modo la terribile Giovanna finì dall’altra parte della baia.
A quel punto la perfida parve averne abbastanza e scelse per risalire a riva un punto ben lontano dalle grandi mani e dalle lunghe braccia mulinanti di Berretta.
Ma non era che astuta, dissimulante strategia: l’ostinata, infida, indomita, aveva ancora in cuore la volontà sontuosa del riscatto, il desiderio della grondante vendetta; e mentre l’eroe acclamato da buffoni importuni, se ne tornava a casa amareggiato, gli tese un ben meditato agguato: gli piombò addosso da una grondaia.
E allora – fortunato chi assisté a tanta meraviglia, beato chi può raccontare “io c’ero” – , si vide, stagliante nel cielo abbagliante del carruggio, silenziosa (orgogliosa e superba fino all’ultimo) la sagoma scura della Giovanna che dopo molto volteggiare, ricadde ferocemente su un tetto e della quale ognuno udì, con agghiacciante chiarezza, il sordo brontolio di rabbia e di minaccia, e il furibondo trepestio sulle tegole.
Nessuno la vide più, nessuno ne seppe mai più niente. Berretta divenne l’idolo di tutti i ragazzini e certo, seppure intimamente schivo, un po’ se ne compiacque anche lui. Nessuno, però, seppe mai come né perché, da quel giorno non tirò mai più.
E come senza di lui l’ailurobolia non avesse senso, il lancio rituale del gatto decadde e in breve se ne perse persino la memoria. E questo è naturale, logico, inevitabile.
Qualche romantico potrà dolersene, altri se ne rallegreranno; i saggi (che sono la maggior parte degli uomini, contrariamente a quanto si crede) resteranno perfettamente indifferenti.
Ma non è tutto qui: la fine dell’ailurobolia, quella stessa di Berretta e di Sestri, non sono che sintomi, parole di un messaggio che ci sfugge ma che oscuramente percepiamo e in qualche modo, anche, comprendiamo. Senza che nessuno lo volesse, senza una causa visibile, il tempo si mise improvvisamente a correre: le cose sembravano diventar liquide e sfuggivano tra le mani degli uomini perplessi con fulminanti metamorfosi.
Una fabbrica incomprensibile cadde, enorme, nera, puzzolente nella piana alle spalle di Sestri. Era una trappola infame. Berretta era troppo intelligente per non accorgersene; ma capire non è mai servito a nessuno: le sue stesse virtù congiuravano contro di lui, gettandolo in braccio al destino che li avevano approntato: il fascino dell’esperimento, il coraggio, la curiosità, la voglia di avventura, il disprezzo della vita e della morte, persino la pietà figliare lo spinsero oltre la soglia del segreto, oltre la soglia della fabbrica sconcertante e misteriosa.
Dopo meno di un’ora di lavoro, mentre armeggiava a cavalcioni di una rotaia a trenta metri di altezza, si spezzò non so che cavo, e Berretta fu preso in pieno. E volteggiò in aria, grosso com’era, a braccia larghe e gambe larghe, dinoccolato e atroce.
Rimase negli occhi per sempre a quelli che lo videro e nei loro orecchi restò il tonfo sordo del suo corpo che non si rialzò e non fuggì.
Dio solo sa che cosa sia diventata, da quel giorno Sestri Levante. Dell’antico borgo, e della vita barbarica che un giorno lo impreziosì, non rimane traccia che nella vaga memoria dei vecchi e nella nostra malinconica letteratura.
Ma sopra le rovine dei tetti del carruggio, nel cielo malinconico ove una volta s’era stampata la Giovanna, si sente vibrare talvolta (e non di rado anche si vede) un sogghigno orribilmente compiaciuto.
I vecchi dicono ch’è il diavolo e chissà che non abbiano ragione! Ma non mi sentirei di giurarlo: le cose sono sempre un po’ più complesse di quanto non si desidererebbe. Quello che so è che l’aspro spirito del gattobolo era ben vivo ancora, sebbene distrattamente, in Giulain, come il lettore potrà costatare al capitolo 22 della storia di Mario!: storia tormentata, ridicola e feroce; folle e dispersiva come ogni autentica tragedia e vita.
Vincenzo Gueglio
Sognatrici della Luna.
Sonia era una bambina; ma non certo una bambina qualunque: pensate: era Sonia e per giunta faceva la terza elementare nel paese di Segesta.
Anche Segesta non era un paese qualunque: incastonata nel mare e circondata da almeno trecento colline che – affascinate e incuriosite dalla meraviglia che vedevano dalle loro cime – si stiravano come querce fino a raggiungere con qualche loro propaggine e radice il fondo misterioso e fantastico del mare, cui si aggrappavano con tutte le unghie e dal quale traevano il colore per i loro alberi stinti, e intanto incidevano sulla costa tante spiagge che brillavano come soli e lune e stelle, oro, smeraldi e zaffiri che rimandavano in cielo una luce che non c’era mai stata e rendevano felici i bambini: un po’ perché i bambini sono naturalmente amici della luce e del sole, un po’ perché su quelle spiagge, che nessuno aveva mai potuto contare e delle quali nessuno se non loro possedeva il catalogo, i bambini potevano disperdersi – come branchi di acciughine disturbate da un sasso o minacciate da un nemico – quando la bellezza delle cose e la voglia di vivere gl’impediva, proprio gl’impediva, di andare a scuola.
A scuola, dove ogni tanto pure accettavano di portare la loro gioia, la maestra gli aveva spiegato come fosse accaduto, in tempi remoti, che l’Isola si fosse legata alla terraferma; ma loro sapevano già che erano stati i passi dei bambini curiosi e l’andirivieni dei sogni e dei sospiri, l’amore reciproco del mare e della terra (che tuttavia a volte litigano anche, spaventosamente, come tutti i veri innamorati) e il bisogno di un colloquio continuo fra gli esseri del mare e della terra. Loro queste cose le sapevano, le sapevano perfettamente senza bisogno di averle studiate, perché erano parte di quell’amore e di quel bisogno.
Si capisce dunque come mai – fra tutti gli altri motivi che ognuno intuisce – s’è detto che Sonia non era una bambina qualunque; e d’altra parte si capisce anche, senza bisogno di spendere nemmeno una parola per spiegarlo, che Sonia era una bambina proprio come tutti gli altri bambini; e che, proprio come ogni bambino, nella sabbia e nell’acqua vedeva tutte le infinite possibilità delle cose e si sentiva prudere le mani e la mente per la voglia di dare una forma a qualcuna di esse. E così si metteva a costruire mondi di sabbia: castelli, draghi, vulcani e altre cose che i grandi non capiscono e non sanno.
Quel giorno aveva deciso di costruire il castello di re Arturo (re Arturo e la sua corte, forse non tutti lo sanno, è una fantasia comune a tutti i bambini, che poi da grandi in genere se ne dimenticano: tranne alcuni, che inseguendo un vago ricordo, ci scrivono su storie sfrontate e colme dell’antica maraviglia), quando un bambino sconosciuto, e intriso però della sua stessa idea, si offrì di aiutarla.
Era un bambino, lo si vedeva subito, di quelli che vengono qui d’estate, al seguito delle famiglie ansiose, per prendere un po’ di colore e di salute.
Sonia sapeva già che aveva la sua stessa età, e sapeva già anche molte altre cose di lui quando gli chiese: “Come ti chiami?”.
“Martino!” rispose il bambino, e come se ne avesse colpa aggiunse: “Vengo da Buttano, un nebbioso paesino delle Langhe, sono qui in villeggiatura per due mesi”.
Sonia non aveva la minima idea di che cosa fossero le Langhe, naturalmente, eppure quel nome le piacque e le evocò: negli occhi le si accumularono scogli pallidi, terre grigie, spaccate da profonde fenditure e intricate da un cielo vago che faceva anche da sfondo ed era una specie di mare; vide anche un fascio di luce che fendeva l’oscurità; la seguì e ne arrivò alla fonte: erano i capelli di Martino, splendenti come il sole, e i suoi occhi azzurri che la guardavano limpidi come il cielo di Segesta nei giorni di tramontana e facevano del radioso Martino come un pezzo di Segesta incastonato in un altrove misterioso.
Sonia tornò alla realtà ed una voce estranea parlò per lei dicendo, con tono distaccato: “Dai, Martino, comincia a lavorare; prendi dei secchi di sabbia bagnata, così cominciamo a costruire la prima torre”.
Mentre Martino riempiva i secchi di sabbia, Sonia pensò: “Chissà chi ha ordinato alla mia voce di uscire così in fretta e senza riflettere, non certo io, che stavo ancora sognando”. In ogni caso Sonia non si rammaricò troppo dell’accaduto, il suo cuore era felice di fare il castello con Martino.
Nel tardo pomeriggio il castello era finito, tutto era filato liscio, ci fu solo un lieve diverbio a metà costruzione sull’architettura delle torri: lo risolsero facendo ciascuno a suo modo e videro che in fine il risultato era buono.
Il castello era già bellissimo; tuttavia, poiché la bellezza non è mai troppa o comunque sembrava ai loro cuori di poter fare di meglio, decisero di decorarlo con le conchiglie e i vetrini multicolori che si trovavano sulla battigia.
Frugando fra le pietruzze colorate e brillanti, l’occhio di Martino fu attratto da un pezzetto di mattone a forma di cuore, consumato dal sale e dall’erosione delle onde, una patina di sale lo avvolgeva come fosse un candito e ne esaltava ancor più il colore e, si sarebbe detto, il sapore.
Con finta noncuranza, Martino lo prese e lo incastrò dolcemente sulla porta del castello.
Quando Sonia lo vide arrossì. Martino arrossì a sua volta talmente tanto che i suoi connotati non riuscivano più a legare tra loro. Il cielo blu dei suoi occhi, il grano giallo dei suoi capelli, il rosso papavero delle sue gote lo rendevano simile a un dipinto di Van Gogh.
Sonia volle guardarlo severamente, ma il suo cuore batteva caldo come il sole in persona, e chissà che sguardo ne venne fuori.
Martino credette di poter uscire dall’imbarazzo (capita anche ai bambini) con un po’ di ipocrisia e di letteratura; balbettò, cercando di infondere fermezza e indifferenza nella voce: “Questa porticina a forma di cuore, vedi, è una sorta di omaggio alle favole, al tuo paese – so che Andersen è passato di qui e ha lasciato il nome all’altra spiaggia, che si chiama Baia delle Favole – e poi… mi sembra un bel contrasto, questo richiamo un po’ ironico alla casetta tipica delle fiabe, con la maestà un po’ trofia del castello”.
Sonia, che non s’aspettava niente ma s’aspettava tutt’altro, senza sapere né come né perché si sentì irritata ed offesa da qual profluvio di parole o da chissà che cos’altro. Si sentiva ferita, ecco; ferita, ma non sapendo esattamente da che cosa e non avendo né rivendicazioni da avanzare né argomentazioni da opporre, lo interruppe freddamente e con voce scocciata disse: “E’ l’ora di andare a casa, il sole sta tramontando!”.
Sonia stupì, di nuovo, per quella voce che le usciva fuori senza che lei l’avesse pensata o decisa e tantomeno autorizzata; a volte l’aiutava a togliersi d’impiccio; adesso chissà… Sonia si sentiva delusa per non avere trovato le parole che colpissero Martino con l’amarezza e la ferocia che le intridevano la carne e il cuore.
“Beh”, pensò Sonia, “mi capiterà pure l’occasione di fargliela pagare”.
Ma che cosa doveva fargli pagare? Che cosa l’aveva ferita? E come?
A quel punto una vocina spuntò dal cuore di Sonia e le sussurrò: “Martino è solo un ragazzetto timido: tu gli piaci, è chiaro, ma non riesce a dirtelo apertamente; così, nella sua timidezza, ti ha messo il cuoricino per dichiararti il suo amore”.
La vocina continuò: “E tu perché fingi d’essere così fredda e indifferente? Perché non lo prendi per mano e lo inviti a guardare il tramonto con te?”.
Sonia troncò la vocina, mentre il suo Ego tornò secco: “Distruggiamo il castello prima di andare via?”
Martino che voleva salvare il piccolo monumento del sua amore disse: “Ma no, lasciamolo fino a domani mattina, voglio farlo vedere a mio padre”; e salutando Sonia con aria indifferente aggiunse: “Domani sei qui?”
Sonia scrollò le spalle e la sua vocina rispose: “Non so, forse!”.
Martino, frastornato dall’emozione, rimase a guardare i colori del tramonto – non ne aveva mai visti tanti, né così intensi e struggenti – e ad ascoltare i battiti del suo cuore commosso – e non ne aveva mai sentito di così forti; e conturbanti-.
Prima di andare via la mano di Martino rubò il cuore di mattone. Martino quella sera non uscì: se ne stette in casa a sognare e ad intarsiare col temperino le lettere M e S sul cuoricino di mattone.
Sonia, invece, quella sera uscì col papà Cesare con la scusa di fargli vedere il castello, prima che qualche monellaccio lo distruggesse. In realtà, anche Sonia voleva rubare il cuoricino, diventato improvvisamente importante per lei. Arrivati alla baia, Sonia cominciò con discorsi del tipo: “Guarda papà che bel castello ho fatto oggi con Martino…”, “Ah!”, soggiunse Sonia: “Mi sono dimenticata di dirti che oggi ho conosciuto un bambino di Buttano che…”, Sonia si interruppe di colpo! Il cuoricino non stava più sulla porticina del castello né in nessun’altra parte. Cesare riapre il discorso: “Sonia, cosa mi dicevi a proposito di Martino?”, Sonia si strinse nelle spalle e con le mani sul ventre rispose: “Presto, portami a casa papà…… ho freddo; ti racconterò tutto strada facendo”.
Ma non disse più nemmeno una parola. Giunta a casa, balbettò una scusa e corse a chiudersi in camera. I suoi pensieri vagavano come tronchi alla deriva in una corrente che tirava da tutte le parti: qualche tronco sbatteva sulla scogliera della logica, qualcun altro sulla battigia della speranza; i tronchi più grossi erano i pensieri che la corrente portava al largo nel regno dei sogni.
Stringeva nelle mani un cuoricino che non c’era e che avrebbe voluto impreziosire con le sole iniziali che ormai contavano per lei. Un pensiero galleggiante la rincuorava: “Il cuoricino l’ha preso Martino e adesso ci sta incidendo le nostre iniziali”.
Le correnti, si sa, girano ed un altro pensiero affondò in Sonia sussurrando maligno: “Ti sei comportata da bambina stupida, Martino si è arrabbiato ed ha buttato il cuoricino a mare”. Non la consolavano eventualità del tipo: “L’avrà preso qualche bambino per giocarci”. Anzi, questo la mandava in furia, era insopportabile pensare che un bambino giocasse col simbolo del sua amore: sarebbe stata la profanazione di una cosa sacra.
Sonia si addormentò e sognò: Martino le veniva incontro e poi… si baciavano, proprio come nei film.
Eh, sì: nel sogno i desideri vengono fuori come le lumache dai gusci nei giorni piovosi; purtroppo nei sogni emergono anche le nostre paure ed ossessioni e si ingigantiscono senza misura.
Sonia adesso sognava un grande cuore di mattone e una ruspa che lo stava caricando su di un Truck colorato, poi confusione, poi il Truck stava scaricando il cuoricione giù da una rupe……. si sarebbe spaccato…… Sonia ansimava e impotente non riusciva né a muoversi né a gridare….. Martino la guardava e rideva dicendo: “Così impari a fare la stupidina con me, io di Sonia ne trovo una ogni angolo!”.
Il sogno si ingarbugliava sempre di più cangiando tinte e contenuti: adesso il cuore gigante diventava incandescente, poi un soffio di Martino lo tramutava in oro, un vento forte alzava il cuore che si conficcava nella porta della Chiesa di S. Maria di Nazareth, dove lei era stata battezzata: dalle fessure delle iniziali M e S usciva una luce scintillante e subito dopo dalle stesse fessure uscirono Sonia e Martino in vesti nuziali, tirando riso agli amici.
Quello si che era un bel sogno; Sonia cercò di fissarlo il più possibile, ma una grossa nube coprì tutto mentre lei urlava: “Martinooo”.
Si svegliò sudata; era ormai l’alba, Sonia lentamente tornò alla raltà: e scoprì di essere innamorata.
Ormai non poteva più ingannare se stessa! Le varie vocine che venivano dall’anima, dal cuore, dalla sua stessa mente educata non le interessavano più, anzi nemmeno le ascoltava: si era chiusa in quella meravigliosa fortezza che si chiama amore. Unico, solo, forte e incontrollabile. Sonia tutto a un tratto capì cosa volevano dire certe frasi nei romanzi d’amore, credeva fossero scemenze prima, adesso avrebbe potuto scrivere di meglio lei. Anche poesie avrebbe potuto scrivere, se avesse voluto, ma adesso lei voleva che la poesia fosse la realtà, l’amore.
Nessuno di scandalizzerà, nevvero?, sentendo parlare dell’amore di una bambina di sette anni. Evvia, lo spaete anche voi, in fondo, che anche (o soprattutto) a quell’età si ama – o si può amare – davvero. E perché altrimenti l’amore sarebbe raffigurato sempre come bambino? L’amore (si finge di saperlo ma poi si stenta a crederlo quando si scopre che quanto si è soliti ripetere è proprio vero) è cieco come la fortuna e non fa alcun caso all’età.
L’amore non fa calcoli: è azione al presente; è audacia: Sonia va alla spiaggia in cerca di Martino. Sonia ha perdonato completamente Martino; anzi non ricorda nemmeno più che cosa aveva potuto rimproverargli; rimprovera se stessa, piuttosto; si rammarica dei propri pregiudizi, della propria stupidità di bambina che si comporta non secondo la propria volontà e secondo i propri desideri ma come una marionetta agitata da chissà chi.
Sonia s’infila nel Carrugio che porta al mare con la ferma intenzione di farsi perdonare da Martino.
Orrore! Il castello, testimone del loro amore, è stato travolto e quasi interamente dissolto dalla marea notturna: non ne sono rimaste che poche tracce penose: il fantasma del fossato – una pozzanghera di sabbia – le vaghe forma delle torri slavate dall’acqua.
Sonia pensa al significato delle parole “Castello di sabbia” ed ha il terribile presentimento che così si sia dissolto il loro amore.
Alcuni lacrimoni le scivolano giù dalle guance, cadono giù nella sabbia, nel mare che se li porta via. Ma intanto un pensiero la consola: “il cuore però è di mattone, quello durerà!”.
La mattina passa in fretta e Martino non si fa vivo. L’angoscia comincia ad impadronirsi di Sonia e tremendi pensieri affollano la sua testolina.
Sonia chiede ad Alfredo, proprietario del magazzino dove Martino tiene le sdraio, se lo ha visto o se sa come mai non è venuto al mare. La risposta di Alfredo si traduce in una violenta mazzata per Sonia: “Martino è partito per Buttano, una sua zia sta molto male: penso proprio che non tornerà più per questa estate”. Sonia nella disperazione più totale, osa chiedere: “Ha lasciato per caso un biglietto per me?”
Alfredo sorridente, con un risolino da presa in giro risponde: “No, perché? Doveva?”.
Sonia torna a casa desolata e, in compagnia dei lacrimoni che le scendono sulle guance, si chiude in camera.
L’estate finisce presto, senza che Sonia abbia notizie di Martino.
L’amore, anche questo si sa o si finge di sapere, se ne infischia della ragione – di tutte le ragioni, come pure dei torti; induce a pensieri ed azioni stravaganti, felicemente assurde o inutili e proprio perciò, forse, preziose. Come accade – chissà poi perché – a quasi tutti gli innamorati, Sonia comincia a fissare la luna, tutte le sere, anche quando la luna non c’è.
La sua mente corre lassù, girovaga per i crateri, si crogiola in riva agli oceani (mai visti oceani così asciutti!), piroetta per le pianure senz’alberi e senz’erba (ma in che cosa mai si distinguono dai mari?) e poi se ne torna indietro.
Sonia a poco a poco scopre che preferisce vivere sulla luna, torna indietro sempre più di malavoglia, sempre più raramente, giusto per vedere il babbo, la mamma, il gatto; ma si sente sempre meno a casa sua, qui, anche se fatica ad ammetterlo.
E Martino? Martino era dovuto partire in tutta fretta senza tempo né modo di salutare Sonia e Dio sa se e come avrebbe voluto farlo. Mille volte prese carta e penna per scriverle, ma lei lo aveva lasciato con tale freddezza che gli aveva tolto tutte le parole: l’inchiostro nella penna si era seccato e la carta era così ostinata a rimanere bianca che non c’era verso di farle accettare nemmeno uno scarabocchio.
Ma la mancanza delle parole non significa certo mancanza d’amore, anche se a volte le ragazze sembrano crederlo… Insomma, non un giorno Martino smise di amare la misteriosa Sonia.
;a l’amore conosce vie tutte sue. Martino prese anche lui a fissare la luna con totale intensità; e anche la sua mente cominciò a tessere un fitto andirivieni fra la sua cameretta e le brulle, affascinanti praterie della luna, che forse sono oceani.
E’ quasi certo che le fantasie – le anime – dei due bambini si siano incontrate lassù; ed è quasi certo che sovente siano tornate assieme sulla terra; ma i bambini non lo sapevano: perché la coscienza è difesa da mura alte e robuste, che respingono le fantasie e spesso anche la verità come se fossero nemici pericolosi, e non li lasciano entrare. Ma anche le difese più salde hanno qualche fessura, e per quelle esili fessure filtrava nei cuori dei bimbi un’emozione, un calore che era quasi ricordo. Ma ciò che è nel cuore è nel cuore, anche se a volte grida forte disperatamente, difficilmente riesce a far giungere la propria voce al cervello, e anche se ci riesce, il cervello non capisce, perché cuore e cervello parlano lingue tanto diverse che più non si potrebbe. Ma esiste sempre, nel tempo, un varco, un giorno in cui anche le pietre possono farsi capire; e gli uomini (se vogliono) possono capire le lingue in cui parlano l’acqua e il fuoco: e persino le lingue, che sono le più difficili a capirsi, degli altri uomini; e i corpi capiscono, se vogliono, le voci dei loro cuori; e altre cose. Se vogliono.
Accadde a Natale.
Forse perché davvero a Natale c’è in giro una maggiore disponibilità all’amore, o magari solo per caso, fatto sta che a Natale Martino, con la scusa degli auguri, spedì una cartolina natalizia a Sonia. Avrebbe preferito mandarle una lunga lettera, e confessarle tutto quello che provava per lei, ma non era affatto sicuro che le parole gli avrebbero obbedito: le parole, si sa, come i gatti, se ne vanno dove vogliono loro: accade anche a veri scrittori di non riuscire a domesticarle, figuriamoci ad un bambino, e a un bambino emozionato, poi… E poi… il coraggio non cade mica nel cuore come un meteorite, nasce poco a poco, come un fiore, ed è altrettanto delicato… e infine, un biglietto d’auguri, vi sembra così poco? Eccolo, così ognuno giudicherà da sé, ch’è sempre la cosa migliore: “Cara Sonia, auguri di buone feste! P.S. Ho tenuto il cuoricino di mattone come ricordo dell nostro Castello di Sabbia”! Non so che effetto possano aver fatto su di voi queste poche parole. A Sonia fecero balzare il cuore fino alle stelle, anzi fin sulla luna.
Martino non ebbe bisogno di aspettare il postino per ricevere la risposta immediata di Sonia: “Caro Martino, auguri anche a te! P.S. Voglio incontrarti subito sulla luna”.
Martino si affacci alla finestra, la luna è splendente; l’anima di Martino ha così fretta ed è così forte e felicemente sbadata che sale, stavolta, portandosi appresso tutto il corpo.
E quando Martino giunge sulla luna Sonia è già lì ad aspettarlo: in carne ed ossa come lui. Con il medesimo frettoloso entusiasmo di Martino si è dimenticata di staccarsi dal corpo.
Ma oggi i corpi non sembrano affatto separati dalle loro anime, non fanno nessuna resistenza, non si stupiscono nemmeno; e del resto, di che cosa mai potrebbero stupire?
E voi vi meravigliate freddamente, forse, o addirittura pensate che sia impossibile che due bimbi siano sulla luna, e respirino e sorridano come sulla terra e anche meglio, senza soffrire né il freddo né il caldo?
Ma essi sono l’aria e il respiro l’uno dell’altro…
Martino sorridente va incontro a Sonia offrendole il cuoricino di mattone; Sonia allunga le mani ed insieme stringono così forte il cuoricino che diventa incandescente! E continuano a stringere, finché anche loro diventano incandescenti fino a fondersi in un’unica luce splendente.
Questa nuova luce nel firmamento (le vedete?) propizia e protegge gli amori innocenti e puri: forse perché anche lei ha bisogno di compagnia; o forse solo perché così le sembra giusto, o anche soltanto perché le piace…
Se anche voi siete così – puri di cuore e capaci d’amore -, non ho bisogno di dirvi altro: voi sapete tutto di quella luce – che non è solo nel cielo-; se non siete proprio così, beh, non perdete la speranza, potrete diventarlo; quella luce è lì anche per voi, e prima o poi vi scenderà nel cuore, o voi vi eleverete sino a lei. E’ sicuro. O quasi.
di Rudy Ciuffardi
Illustrazioni di Stefano Biglia